Scrivo queste parole a metà giugno del 2020, quando le proteste per la morte di George Floyd continuano ad imperversare per gli USA, le denunce di atteggiamento razzista presso la polizia e più in generale nelle politiche statunitensi sono sempre più insistenti, il movimento Black Lives Matter non è mai stato così ampio e così forte e gli echi delle proteste, e le prime avvisaglie dell’ondata culturale antirazzista arrivano anche in Europa e qui in Italia.
Per prima cosa, vorrei dire senza equivoci che in linea di principio trovo tutto questo meraviglioso: il clima culturale statunitense, e di conseguenza la percezione delle problematiche sociali legate al razzismo, è molto distante da noi italiani (è molto importante e ci ritornerò), ma i principi che le animano certamente no, e trovo insopportabile l’idea che un mio simile, di qualunque genere, sia discriminato sulla base dell’etnia di provenienza con la quale viene identificata o identificato. Lo stesso ovviamente si applica a identità religiose o di genere (anche qui, ne riparlerò).
L’ondata culturale coinvolge qualsiasi aspetto in cui una cultura si declina, e fra questi i giochi non fanno eccezione. Del fatto che il gioco non sia puro intrattenimento abbiamo già detto, e la trovo francamente una nozione abbastanza scontata.
La decisione di Hasbro
E’ di due giorni fa un comunicato ufficiale in cui Hasbro, tramite la sua Wizard of the Coast, annuncia che le immagini di alcune carte di Magic verranno rimosse dal suo sito ufficiale, per essere sostituite da un testo in cui l’editore spiega che la carta è stata rimossa perché conteneva illustrazioni, testo o loro combinazioni razziste.
Ovviamente ho subito ricercato le carte in questione, per vedere con i miei occhi i contenuti razzisti in questione.
Non nego che sulle prime la lista mi ha lasciato abbastanza perplesso: se posso capire a prima vista perché rimuovere Invoke Prejudice (anche se hanno dovuto spiegarmelo, che fra le nebbie di McNeill c’è un riferimento al Ku-Klux Klan), e dopo un po’ di riflessione ho compreso che Imprison possa far venire in mente fastidiosi riferimenti alla tratta degli schiavi africani, rimango tuttora incerto sull’opportunità di trovare offensive Crusade o Jihad, perché si riferiscono ad avvenimenti talmente lontani nel tempo da essere abbastanza svuotati di carica emotiva. Pradesh Gypsies mi sembra abbastanza inoffensiva, ma gli “zingari” illustrati da Quinton Hoover sono raffigurati in maniera stereotipata e lo stesso termine “gypsies” non è dei più amichevoli; resto invece totalmente all’oscuro di perché Cleanse o Stone-Throwing Devils possano risultare razziste, anzi se qualcuno volesse illuminarmi al riguardo, gliene sarei grato.
Il razzismo nei giochi da tavolo
Al di là del caso specifico, comunque (Magic peraltro è già stato oggetto di moltissime censure, soprattutto per quanto riguarda il mercato cinese – in particolare trovo notevole il fatto che la povera Crusade avesse già subito due cambiamenti di illustrazione per rimuovere le croci latine), credo che questa decisione dia nuova linfa al dibattito sulle raffigurazioni del razzismo presenti nei giochi, e che questo sia un dibattito estremamente interessante.
Per varie ragioni. La prima è che questo infonde dignità e importanza al gioco in quanto medium: nessuno presta attenzione al fatto che tematiche così importanti possano essere in qualche modo rilevanti se vengono trattate all’interno di un fenomeno di nicchia che coinvolge poche persone, viceversa le preoccupazioni che queste raffigurazioni possano avere una influenza, significa riconoscere implicitamente il potenziale del gioco da tavolo nel convogliare dei messaggi, e questa è una gran cosa.
La seconda, ovviamente, riguarda le riflessioni sull’opportunità della rimozione di alcune raffigurazioni. E su questo non è così immediato trarre conclusioni.
La questione della presenza di raffigurazioni discriminatorie nei boardgame non è nuova: anche se la tematica forse più presente nel nostro hobby è quella delle discriminazioni di genere, il razzismo o il riferimento a ideologie inaccettabili vi fanno capolino periodicamente. A titolo di esempio, un paio di anni fa è comparso sul blog del Fatto Quotidiano uno strano articolo circa le possibili conseguenze che l’ambientazione di Santa Maria avrebbe avuto. Lo trovai un pezzo clickbait, scritto da persone non particolarmente competenti dell’ambiente (infatti Santa Maria non ha suscitato alcuna polemica importante, a mia conoscenza), ma è innegabile che il gioco da tavolo, come tutti i mezzi di comunicazione, debba fare i conti con temi delicati e critiche conseguenti.
E ogni volta, le discussioni al riguardo si riducono a reazioni riconducibili a “ma per piacere, sono tutte sciocchezze”.
Tutte sciocchezze? L’importanza del contesto
Ed eccoci al punto dell’opportunità della rimozione: no, non sono sciocchezze. Il boardgaming va assumendo una diffusione e una importanza crescenti, e credo debba prendersene la responsabilità. E affrontare temi difficili non è, abbastanza tautologicamente, facile, per cui talvolta è stato fatto male, ad esempio attraverso delle goffe edulcorazioni: sfido chiunque a pensare veramente ai “coloni” di Puerto Rico come tali. Perché allora le reazioni della comunità dei giocatori al riguardo tendono abbastanza univocamente a ridicolizzare il problema? Credo sia perché chi reagisce ha ben presente una cosa che non necessariamente è evidente a tutti: il contesto in cui le raffigurazioni riguardanti questi temi compaiono.
Se ad esempio è immediatamente evidente che le simbologie naziste di qualsiasi wargame storico non hanno alcuna funzione di difendere il pensiero hitleriano è perché si pongono all’interno di un contesto in cui è chiarissimo che il loro valore è unicamente quello della ricostruzione storica. Lo stesso non si applica ai “coloni” di Puerto Rico che citavo sopra: in quel caso è evidente che qualcosa non quadra, perché il gioco manca di una contestualizzazione adeguata. Diverso sarebbe stato includere con il gioco (in una pagina di regolamento, ad esempio) una nota in cui si specificava che l’ambientazione prendeva spunto dalle vicende della colonizzazione spagnola di Porto Rico avvenuta dagli inizi del 1500 sino alla fine del 1800, in cui l’economia era prevalentemente di tipo schiavistico. In questo modo, il gioco non avrebbe dovuto modificarsi in alcun modo e avrebbe guadagnato un ulteriore livello di dignità, quello di stimolo ad approfondire una realtà storica forse sconosciuta – e forse a suscitare qualche riflessione nei giocatori: ti ha soddisfato raggiungere i tuoi 60 punti? Bene, però tieni presente che dozzine di famiglie hanno perso la libertà e sofferto, per farteli guadagnare 🙂 (sia chiaro: non che Puerto Rico così com’è sia particolarmente odioso o problematico, anzi, è uno dei miei giochi preferiti; è che rappresenta bene una opportunità mancata). Mi ripeto: non si tratta di censurare, ma di contestualizzare.
Allo stesso modo, credo che il giudizio sull’eliminazione di alcune carte di Magic vada sospeso nella misura in cui ci si accorge della distanza fra sé e i loro principali destinatari, cioè il popolo statunitense. Se ai miei occhi Imprison potrebbe rappresentare molto alla lontana, e certamente non nelle intenzioni di Mark Tedin, la riduzione in schiavitù di un africano, non posso affermare con certezza ciò che quella illustrazione possa suscitare in un afroamericano. Non posso quindi concludere con sicurezza che Hasbro abbia fatto “bene” o “male” a censurare quelle carte. Di certo, però, le considera un mezzo capace di arrivare a molte persone, e, nell’assenza di un contesto adeguato, di convogliare messaggi potenzialmente equivoci.
Il grande potenziale del gioco
Con altrettanta certezza posso però dire che con questo Hasbro non considera Magic un’opera d’arte, almeno non del tutto (e non soprendentemente). L’arte serve (anche) a testimoniare una parte del percorso che l’umanità ha compiuto nella sua storia, mentre la percezione di razzismo è fortemente influenzata da ciò che sentiamo vicino. Per questo nessuno sente l’urgenza di distruggere le piramidi azteche su cui si facevano sacrifici umani o di abbattere il Colosseo in cui morivano degli schiavi, mentre la statua di uno schiavista del diciassettesimo secolo può apparire ancora dolorosamente attuale, a chi sente vicine le questioni che evoca. Ma è per le caratteristiche di “eternità” dell’arte che la stessa statua può essere ripescata e posta in un museo, in cui verrà adeguatamente contestualizzata.
Imprison avrebbe potuto essere una interessante testimonianza di come “vent’anni fa consideravamo accettabile una illustrazione del genere, oggi ci rendiamo conto che c’era del razzismo sotteso; la lasciamo lì a memento di questo, ma le mettiamo assieme una nota in cui indichiamo che oggi siamo ben più attenti a questi temi”. Ma i giocatori comprano le carte adesso, non fra due secoli, ed ecco che servono soluzioni rapide. Piuttosto che contestualizzare, Hasbro ha preferito censurare: una via che tende a impoverire anziché ad arricchire, ma certamente più veloce e pratica da attuare.
Del resto è nella natura ibrida del gioco da tavolo, artistica da un lato e commerciale dall’altro, che le soluzioni si rivelino non facili da attuare. Ed è interessante come le cose si evolvano al suo interno: forse Puerto Rico resterà come testimonianza di un grandissimo gioco che ha gestito l’imbarazzo del razzismo cercando di edulcorare le cose, mentre Pax Emancipation ha cercato di affrontare direttamente l’argomento, pur suscitando forti critiche su come l’autore abbia deciso di farlo. E domani chissà che altro vedremo.
Di certo, tutto questo indica come il gioco si riveli sempre di più portatore di un enorme potenziale per quanto riguarda la comunicazione, non sempre previsto né semplice da gestire. Ma in grado di gestire qualsiasi contenuto, senza che debbano esserci temi proibiti. E di questo potenziale, noi appassionati non possiamo che gioire; personalmente, spero si contestualizzerà sempre di più per censurare sempre di meno.